Cenni storici

Nel 1784 nella località detta “Coraglia”, nome derivato dal viottolo “Coralla o Caranta”, non lontano dalla chiesa parrocchiale di Santo Spirito più di 200 metri, avvenne questo fatto. Un certo Bernardo Sabbatani, ortolano del fondo denominato “Palazzo Matteucci”, “Maciöz”, ora non più esistente, mentre risistemava in primavera un fosso del suo orto, lungo la via “Coralla”, urtò con la vanga un oggetto resistente, che dissotterrato risultò essere una formella in ceramica raffigurante la Madonna col Bambino, rotta in tre pezzi, forse per l’urto della vanga o già in precedenza. L’uomo, di grande fede, raccolse l’immagine, la ricompattò con otto punti di filo di ferro, come si era allora abituati riparare le terrecotte, e, consentendo la moglie, la portò nel luogo dove l’aveva trovata appendendola ad un oppio. (…) E’ un’immagine di terracotta della Beata Vergine, con sopra uno smalto a colori, fatta e dipinta rozzamente, capelli biondi a spioventi sulle spalle, manto turchino cupo. Regge sulla sinistra, grande in modo esagerato, il bambino Gesù, interamente nudo. L’aria e la posa della Madonna è grave ed amabile. E’ una di quelle immagini, fatte in Imola o nella vicina Faenza, che erano venerate nelle campagne o poste sulle facciate delle case; fatte risalire al 1750 ed invocate sotto diversi titoli. L’immagine della Beata Vergine della Coraglia ebbe fin dall’inizio un culto devotissimo. (…)

Si ha notizia della prima processione con la veneranda immagine nel 1791. Dopo la prima processione del 1791 i devoti della Beata Vergine della Coraglia si impegnarono a realizzarne altre, anche perché si erano provvisti in proprio di quanto necessario. Erano chiamati “tridui” e l’immagine veniva portata fino alla chiesa parrocchiale, con il permesso del parroco, ivi rimaneva per un giorno di preghiera poi era riportata all’albero ove era venerata. Tutte le spese delle processioni erano a carico degli organizzatori e queste si svolgevano sempre di notte, alle ore 22 o 23, per permettere la presenza degli ortolani. Allora la Beata Vergine della Coraglia era chiamata anche “Madonna degli ortolani”. Un’altra organizzazione che diede impulso al culto della Beata Vergine della Coraglia fu la Pia Unione della Beata Vergine “Salus Infirmorum”, detta volgarmente “della Coraglia”. Fu istituita nel 1817 con l’approvazione dell’autorità ecclesiastica, per volontà dei capifamiglia della via Laguna. Raggiunse i 250 iscritti ed ebbe come dotazione varie donazioni, censi e legati e poté acquistare ciò che era necessario per le processioni e prima di tutto il baldacchino ed un ricco frontale. Continuò la sua attività fino alla fine dell’800, anche se in modo più ridotto, per il venire meno delle risorse economiche.

Salute degli Infermi

Nel maggio del 1817 l’autorità sanitaria provvide a riaprire il Lazzaretto nella zona della Coraglia, qui tra il 19 maggio ed il 30 giugno furono accolti ben 164 ammalati. Il convento dell’Osservanza fu attrezzato a convalescenziario. Il decorso della malattia era molto breve e se il malato riusciva a superare il decimo giorno, poteva ritenersi nel numero dei sopravvissuti. Ben 3.000 furono i colpiti nei soli mesi di giugno, luglio e agosto e ben 600 non sopravvissero. L’assistenza spirituale nel Lazzaretto fu prestata da cinque frati Cappuccini (dei quali tre morirono, mentre gli altri due furono colpiti ma sopravvissero) e dal cappellano di Santo Spirito don Marco Carletti, che non fu colpito dal contagio. Il parroco don Sassi era già molto anziano e morì nel 1819.

Ricordando la predilezione e protezione da parte della Beata Vergine della Coraglia in altre sventure passate, i parrocchiani di Santo Spirito decisero un triduo di preghiera ed il 10 luglio 1817 l’immagine fu portata nella chiesa parrocchiale; le autorità civili ed ecclesiastiche, pur con una certa preoccupazione, avevano accordato il loro benestare. Fu tanto il concorso di folla che il triduo dovette ripetersi tre volte ed alla fine del secondo i ricoverati del Lazzaretto ottennero che l’immagine fosse portata tra loro (18 luglio 1817). Dopo questa data non si registrarono più morti nel Lazzaretto, come testimoniarono il dottor E. Bassani e il don Carletti. Fu in questa occasione che alla sacra immagine fu dato il titolo di “Salute degli infermi” e fu pure in quella occasione avendo toccato l’immagine ammalati e sani per evitare il contagio venne verniciata con una tinta unica. Finita l’epidemia fu fatto un triduo di ringraziamento alla fine dell’anno, alle feste di Pentecoste l’immagine della Madonna fu portata alla parrocchiale la sera del 10 maggio; le manifestazioni di ringraziamento programmate o improvvisate superarono qualsiasi aspettativa. Con il concorso di tutte le Confraternite imolesi e di gran folla, la processione del lunedì entrò in città da Porta Romana, e accompagnata dal suono del campanone del palazzo pubblico seguì la via Emilia giungendo fino alla via Appia tornando poi a Santo Spirito, dove era ad attenderla un popolo sterminato. Il martedì dopo altra processione lungo la via Emilia fino al ponte di legno fatto nel 1749. Il conte Luigi Del Carretto Mancurti, morendo nel 1819, lasciò al nipote Tomaso il compito di costruire una chiesa per accogliervi l’immagine della Beata Vergine della Coraglia, di cui era stato devoto per avere ricevuto molte grazie. Il proprietario del fondo, in cui si trovava l’immagine, Domenico Matteucci regalò il terreno e fu posta la prima pietra dal canonico Sagrini, il 22 settembre 1819, presente il nuovo parroco di Santo Spirito, don Carlo Ceroni. La costruzione andò un po’ per le lunghe e solo nel 1821 don Carlo Ceroni benedisse il tempietto ultimato. Il 22 maggio 1821 il costruttore Tomaso Mancurti ottenne dalla Sacra Congregazione delle Indulgenze, l’indulgenza plenaria per chi avesse visitato il nuovo Oratorio nella festa titolare e nei giorni dell’Immacolata Concezione, della Natività, dell’Annunciazione, dell’Assunzione e della Purificazione della Vergine. Sulla porta del tempietto erano scritte le parole: “Salus Infirmorum” ed all’interno al centro del pavimento vi era la tomba dei defunti Mancurti; in realtà vi trovarono sepoltura solo il conte Tomaso Mancurti, sua moglie, Giustina Federica della famiglia Borella e il padre di Tomaso, Giovanni Battista Mancurti. La famiglia Mancurti mantenne efficiente il Santuario fino al 6 marzo 1879, anno in cui rinunciò ad ogni “diritto e ragione”, che aveva sul medesimo, cedendoli al vescovo di Imola, non essendo più in grado di fare fronte alle spese per il suo mantenimento.

Dopo la Seconda guerra Mondiale il Santuario venne colpito gravemente da un’esplosione e fu restaurato interamente e terminato nel 1961. Ad oggi viene celebrata una santa messa ogni domenica e negli altri giorni festivi.